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Scuola

L’opinione: Piccolo breviario lessicale La scuola italiana vive da alcuni decenni una situazione paradossale. Di Giuseppe Limone Professore Ordinario di Filosofia della politica e del diritto, Seconda Università degli Studi di Napoli, Dipartimento di Giurisprudenza.

La scuola italiana vive da alcuni decenni una situazione paradossale. Più crescono i provvedimenti cosiddetti riformatori più cresce la crisi d’identità del docente. Ecco un piccolo breviario lessicale.

  1. Rapporto docente-allievi
    Di anno in anno, di ciclo in ciclo, gli insegnanti devono relazionarsi con bambini e adolescenti di ogni ordine e grado che arrivano nelle classi sempre più fragili e disorientati, molto spesso privi di valori di riferimento e anche di adulti di riferimento. Le famiglie, spesso in crisi o assenti, delegano alla scuola e agli insegnanti compiti che prima erano assolti dalla famiglia stessa. I genitori oscillano, così, fra l’essere assenti e l’essere iper-invadenti.
  2.  Il docente
    Il docente scopre, a un certo punto, di essere solo l’ingranaggio di una macchina organizzativa fatta di moduli, orari, tempi e spazi per le lezioni. Da quando varca la soglia della scuola egli, pur pronto a far lezione, si sente configurato solo come uno che si relaziona con i cosiddetti stake holders (così si chiamano nella neolingua scuolese i portatori di interessi): le famiglie degli alunni, la comunità, il territorio. Il docente, da un lato, ha un essenziale compito civile, e, dall’altro lato, sente che non gli viene riconosciuto. Insomma tutti lo reclamano ma nessuno se lo fila. Se dovessimo assegnargli un ruolo in commedia, l’insegnante sarebbe il grillo parlante con il ben noto finale.
  3.  L’insostenibile incongruenza delle riforme
    Il grande gioco della scuola è una sorta di copione immutabile. Tutti hanno provato a modificarlo tentando di metterci le mani. Dalla fervida fantasia che ha ispirato il genere degli spaghetti western è nata la figura del preside-manager (per non dire il preside-sceriffo). Si tratta di una figura puramente manageriale, che ha perso ogni rapporto con la didattica. Ma essa, da sola, non bastava a costruire il copione, così sono nati gli ambiti territoriali, l’ organico dell’autonomia, il potenziamento. Riforme e controriforme tuttavia non hanno minimamente intaccato quello che in fondo è, e rimane, l’essenza intima di questo lavoro: il rapporto di apprendimento.
  4.  Il cuore del lavoro docente
    Non si apprende al di fuori di una relazione didattica di qualità. Nessuno tuttavia sembra disposto ad ammettere che la qualità dell’insegnamento non passa tanto per l’individuazione di un modello organizzativo, quanto per la qualità della relazione interpersonale che il docente instaura con i suoi studenti. Questa qualità sfugge a qualsiasi analisi quantitativa, non può essere oggettivizzata né racchiusa in un grafico, quindi … non esiste (salvo essere reclamata e invocata).
  5.  Potenziamento dell’organico
    Con la famosa legge 107 si è assistito a un vero e proprio depotenziamento della figura del docente, che è diventato agli occhi dell’opinione pubblica lo scansafatiche con tre mesi di ferie all’anno che deve essere controllato a vista dal dirigente-poliziotto. Tutto ciò ha indebolito la già precaria legittimazione sociale del lavoro dell’insegnante. In virtù di una visione gerarchica e verticistica, il dirigente potrebbe non solo escludere il docente dall’assegnazione del bonus (il che non sarebbe così grave viste le magre cifre), ma assegnarlo a quel limbo che nell’immaginario collettivo è il cosiddetto “organico potenziato”.
  6. La strategia dei tappabuchi
    Ormai tutti i docenti ne fanno un po’ parte. Si tratta di quel personale docente che, tra gli altri compiti, si accolla l’onere di coprire le assenze dei colleghi. Con un termine dispregiativo, ma fatalmente più efficace, si chiamerebbero docenti tappabuchi. Vale la pena sottolineare come, in una sorta di contrappasso, tali figure rimangano la risorsa umana fondamentale su cui l’intero apparato si regge. Proviamo a immaginare che cosa succederebbe senza.
  7. I non luoghi scolastici e gli ambienti di apprendimento
    Spesso i docenti avvertono tutto il disagio per la strana narrazione che accredita un’immagine patinata: quella di una scuola che semplicemente non c’è. I muri scrostati delle nostre scuole ci parlano di edifici scolastici violati e sventrati dagli eventi sismici che la memoria collettiva prontamente decide di rimuovere. Quegli “assets” immateriali fatti di fiducia, dialogo, confronto, co-costruzione del sapere, che la moderna pedagogia individua come ambienti di apprendimento, dovrebbero costruirsi proprio a partire dagli spazi fisici, spesso ricavati in edifici vetusti, se non addirittura pericolanti. I luoghi sembrano chiamati ad assolvere ad un’altra funzione: quella di testimoniare una colpa, un peccato originale che la scuola si porta con sé da quando la nostra carta costituzionale l’ha ascritta al novero delle funzioni pubbliche essenziali.
  8. I nuovi strumentari epistemologici
    I principali problemi della scuola e dell’educazione/istruzione sono trasfusi all’interno di una neo-lingua di carattere retorico-figurativo e logico-quantitativo, molto spesso di difficile comprensione, quasi sempre avulsa dal mondo della vita. Questa neo-lingua non è innocente: essa di fatto tende a ristrutturare nella mente dei docenti la stessa idea di scuola.
    Tutti i problemi di qualità sono trasformati in problemi di quantità. La matematica si trasforma in una retorica della matematica. Ciò che sfugge all’analisi quantitativa semplicemente non esiste. Non che i problemi di quantità non siano importanti, ma non potranno mai sostituire i problemi di qualità. Sfidiamo chicchessia a indicare un criterio numerologico in grado di definire la qualità di una lezione o la qualità di una relazione didattica.
    Si badi, intanto, ad alcuni equivoci: l’uso della parola “oggettivo” per indicare non veramente l’oggetto di cui si parla, ma solo la sua esterna osservabilità, trasformata in numeri. Non che i fattori numerici non siano importanti, ma la quasi esclusiva attenzione ad essi distrae, in realtà, dal focus essenziale. All’interno delle prove Invalsi, nuovo totem nazionale, vive la nascosta ideologia che l’intelligenza consista solo nel problem solving con ciò che ne conseguenze
  9. Individualizzazione e standardizzazione
    Viene chiesto agli insegnanti di calare gli interventi didattici nella realtà in cui operano, in quanto è importante partire sempre dalla realtà in cui vivono gli alunni e dalla loro cultura di appartenenza. Tuttavia, se da una parte questa istanza privilegia i particolarismi culturali locali, dall’altra si scontra con la necessità di misurare in maniera “oggettiva”, attraverso strumenti di rilevazione nazionali (prove Invalsi) le “competenze” acquisite dagli alunni per poter operare una comparazione.
    Viene chiesto agli insegnanti di individualizzare gli interventi didattici, ma poi vengono create classi pollaio di 28 alunni (si prescinde, qui, dall’eventuale presenza di diversamente abili).
    Viene chiesto agli insegnanti di standardizzare tutte le procedure, che siano esse di insegnamento o di valutazione. Standardizzare per poter comparare e operare generalizzazioni. Qualunque processo di standardizzazione trascura un elemento fondamentale, che mai potrà essere restituito: la complessità delle singole comunità scolastiche e delle singole persone che la compongono.
  10. Le competenze
    Oggi il lavoro dell’insegnante è basato su una programmazione e valutazione delle competenze. Fiumi di pagine nel tentativo di stabilire in maniera univoca il concetto di “competenza”, concetto nel quale troviamo abilità, conoscenze (forse, ma potremmo dubitarne, perché queste ultime sembrano non essere più necessarie) e dell’altro, un altro non ben specificato.
  11. RAV (acronimo per dire Rapporto di AutoValutazione)
    Si tratta di una entità oscura che incombe sull’operato di tutto il personale. L’istituzione scolastica valuta il suo operato per arrivare ad auto-assegnarsi un punteggio. La valutazione tuttavia deve evitare o usare al minimo gli aggettivi di valore mentre deve utilizzare al massimo grado parametri quantitativi. La cultura aziendalista ha i suoi riti sacrificali, e così la qualità dell’insegnamento va misurata sul numero di prove, sul numero di incontri collegiali, sul numero di corsi di aggiornamento, sul numero di colloqui, di voti … il più bravo di tutti è colui che riesce a mascherare la più grande inettitudine con il numero più alto di prove contrarie. Insomma la scuola consacra e santifica i numeri mentre bandisce le parole. Potrà anche ipotizzarsi, nel prossimo futuro, una scuola che farà a meno delle parole? Per adesso, ci proviamo con la neo-lingua.
  12. Domanda finale
    La scuola è una comunità educante o una stringa di figure alfanumeriche?
    Esiste, oggi, una nuova forma di burocratizzazione, che non passa sotto questo nome: è la burocratizzazione informatica. Una forma organizzativa minuziosa e dettagliata costituisce oggi una vera arma di distrazione di massa per evitare il confronto con l’unico problema reale di una scuola: quello di una educazione e di una istruzione di qualità.
  13. Il ruolo dell’insegnante e l’angolo della barzelletta
    La scuola italiana sembra realizzare alla perfezione un’antica barzelletta, quella del sarto. Un giorno un uomo andò da un sarto per farsi fare un vestito importante. Il sarto, nel confezionarglielo, lo sbagliò. Per riparare il malfatto il sarto addestrò il cliente a muoversi secondo i movimenti che gli consentissero di non far apparire gli errori della confezione. Quando il cliente, perfettamente addestrato, uscì dal laboratorio del sarto, tutti, guardando quella figura di uomo così goffa nel camminare, esclamarono:Guarda quello lì come è storto, ma ha trovato un sarto così bravo da fargli un vestito a pennello! Il docente, oggi, è chiamato a svolgere una relazione didattica di qualità entrando nelle vesti che gli ha confezionato l’Organizzazione.

Di Giuseppe Limone
Professore Ordinario di Filosofia della politica e del diritto, Seconda Università degli Studi di Napoli, Dipartimento di Giurisprudenza.

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